27, Aprile, 2024

“La nostra vita nel campo profughi di Laterina”. La testimonianza di due esuli

Articoli correlati

In Vetrina

Più lette

In Vetrina

Nadia Della Bernardina aveva 17 anni quando arrivò a Laterina, nei primi anni ’50. Ireneo Giorgini era un po’ più piccolo, aveva 14 anni: e nel 1951, quando arrivò al Campo di accoglienza profughi, si chiamava Juricich. Ecco le loro storie

"In quel campo ho passato ben cinque anni della mia vita e non ero proprio una bambina, avevo 17 anni: rivedendo quelle baracche mi si stringe il cuore al pensiero di come vivevamo". A parlare è la signora Nadia Della Bernardina, che nei primi anni '50 fu esule istriana accolta nel Campo di Laterina. Il numero 82, con una ventina di casermoni, baracche, adibite ad abitazioni. Se così si possono chiamare.

"Chi non ha provato – continua – non può capire, non può neanche credere. Abitavamo in una baracca con tre famiglie, divise da coperte appese a fili di ferro sui quali i topi facevano gli equilibristi. Sono passati ormai tanti anni, ma tutto questo mi è rimasto nella mente come un brutto ricordo che non dimenticherò mai". La storia della signora Della Bernardina è quella di migliaia di italiani fuggiti dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia al termine della seconda guerra mondiale sotto la spinta della pulizia etnica delle milizie jugoslave e lo spettro delle foibe.

Tremila arrivarono a Laterina, dove trovarono un ex campo di prigionia della guerra, riconvertito in campo di accoglienza. E all'inizio erano davvero quattro mura fredde, qualche coperta, paglia per i giacigli e poco più. Poi, con gli anni, l'organizzazione interna del campo lo trasformò in un piccolo paese, praticamente autosufficiente al proprio interno: "Più tardi – ricorda ancora Nadia Della Bernardina – cambiammo abitazione, passammo nella numero 4, dove avevano costruito delle stanzette, era tutta un'altra cosa: non eravamo piu' in mezzo alla coperte e di conseguenza assaporavamo un pò più di libertà". 

Nel campo c'erano una chiesa, la mensa, alcuni impiegati ministeriali, l'infermeria, falegnami, elettricista e barbiere; poi, arrivarono anche il campetto da calcio per i ragazzi e una sala ricreativa per le feste. E c'erano anche delle botteghe: "Da una parte c'era l'abitazione della Natalina che vendeva le sigarette: una alla volta, mi sembra costassero 7 centesimi l'una; dall'altra, invece, c'era il negozio di generi alimentari  gestito dal signor Dudek".

Ireneo Giorgini aveva 14 anni quando arrivò a Laterina con i suoi genitori. La sua famiglia aveva un altro cognome: si chiamavano Juricich. "Fummo trasferiti nel 1950 a Udine, al Centro Smistamento Profughi, e dopo qualche giorno arrivò la nostra destinazione: Campo Profughi di Laterina in Provincia di Arezzo. Arrivammo a Laterina la mattina del 5 dicembre. La corriera dalla stazione ferroviaria ci lasciò dopo 5 km di strada bianca, davanti a una stradina. Scendemmo e in lontananza vedemmo un agglomerato di costruzioni basse". 

Ireneo ricorda molto bene il suo arrivo a Laterina. "Ci avvicinammo con le nostre valigie e una persona ci chiese: Da dove venì?, ovviamente in dialetto. Da Fiume. Andè a presentarve in Ufficio, ci rispose. La nuova vita iniziò lì. Lascio immaginare i miei genitori, all’epoca quarantenni, nel vedersi assegnare un alloggio alla Baracca 12 condiviso con un'altra famiglia. Il personale ci aiutò a trasportare dal magazzino le brande, i pagliericci e la paglia per preparare i nostri giacigli. I muratori ci costruirono in mezza giornata un fornello a legna tutto in cemento".

"L'acqua si prendeva alla fontana in uso comune e i servizi igienici erano in fondo al campo. Io, ragazzino quattordicenne, mi adattai subito, e a gennaio ripresi la scuola ad Arezzo insieme ad altri ragazzi e ragazze. La vita era ben organizzata: al mattino a scuola, si andava ad Arezzo in treno, ma prima prendevamo la corriera dal campo fino alla stazione ferroviaria. Peccato che a volte gli orari ferroviari non coincidevano con quelli della corriera, per cui si doveva fare 5 chilometri a piedi. Si pranzava alle 15 e poi a ''giogar la bala” quando c’era il pallone. Il tempo libero per gli adulti era impiegato nel rendere più confortevole il soggiorno al campo". 

"Nel 1954 – continua il signor Giorgini – venne il sospirato trasferimento alle Casermette di Borgo San Paolo a Torino, e qui inizia un'altra storia. Arrivati a Torino, i due fratelli di mio padre insistettero affinché anche lui cambiasse il cognome come avevano fatto loro, per una questione di coerenza, e mio padre acconsentì. Da lì in poi il mio cognome è diventato Giorgini. Nel 1969 mi sono sposato con una ragazza torinese, Carla. In viaggio di nozze siamo passati da Laterina e ci siamo ritornati nel 1987, con nostra figlia Emanuela, quindicenne". 
 

Glenda Venturini
Glenda Venturini
Capo redattore

Articoli correlati