26, Aprile, 2024

Il Valdarno e il giaggiolo, il fiore che colora di violetto le colline della Setteponti: storia di una produzione antica e di grande qualità

Articoli correlati

In Vetrina

Più lette

In Vetrina

La coltivazione del giaggiolo, sulle colline del Valdarno, ha radici che affondano lontano nel tempo. È una storia di tradizioni tramandate di generazione in generazione, nelle famiglie del territorio, un’arte più che un’attività economica: ma che ha saputo arrivare fino a noi conservando non solo l’altissima qualità del prodotto, ma anche un ruolo chiave a livello europeo per la produzione.

Per capire cos’è la coltivazione del giaggiolo, come funziona e quali sono i suoi tempi, abbiamo incontrato alcuni dei produttori che fanno parte della Cooperativa “Toscana Giaggiolo”, con sede sulla Setteponti, a Castelfranco Piandiscò. Una Cooperativa nata nel 1978 e che da allora ha lavorato perché quest’attività artigianale, la sua storia, il suo potenziale non andasse perduto. Oggi conta oltre un centinaio di soci, tutti piccoli produttori localizzati nella zona della Setteponti, da Reggello ad Arezzo, e in parte nel Chianti. È qui che si concentra la produzione del giaggiolo, o meglio dell’Iris pallida, la varietà dal colore violetto pallido che, tra la fine di aprile e la prima metà di maggio, colora le colline della Setteponti rendendole un paesaggio spettacolare e unico.

Con la presidente Rossella Rabatti, e con i soci Stefano Rossi e Stefania Betti, abbiamo ricostruito cosa voglia dire coltivare il giaggiolo. “Il giaggiolo da noi esiste da tantissimo tempo: coltivarlo significa occuparsi della pianta per tre anni, il tempo necessario per ottenere una radice ottimale per tutti gli usi che se ne può fare”. Già, perché sebbene i meravigliosi fiori violetti siano il simbolo di questa coltivazione, in realtà il fiore non serve: “La fioritura è spettacolare, ma a noi serve il rizoma, cioè quello che c’è sotto. Ogni anno a luglio, quindi dopo la fine della fioritura, raccogliamo le piante che hanno tre anni di vita, e perciò una radice matura: da una parte di queste ricaviamo quelle che ripianteremo in autunno, mentre il resto viene destinato alla produzione”.

Tutto fatto a mano, come da tradizione. Le radici raccolte vengono inviate a due linee diverse: alcune, le più adatte, vengono ripulite dalla buccia (“mondate” con il roncolino, un coltellino ricurvo, un’attività che vedeva e vede impegnata tutta la famiglia) e diventano i rizomi bianchi, quelli destinati alla filiera alimentare, principalmente alla produzione di gin. Le balle piene, dopo l’essiccatura al sole, vengono per lo più inviate in Svizzera, dove ha sede una delle aziende più importanti del settore. L’altra parte invece non viene sbucciata, ma tagliata a fettine, ed è il rizoma nero: il prodotto ideale per la produzione di profumi e cosmetici, e infatti dopo l’essiccatura viene venduto alle aziende che hanno sede soprattutto in Francia.

“Una produzione di nicchia, da circa 200 quintali all’anno, ma di grande pregio e completamente naturale – sottolineano i produttori – il prodotto, poi, è davvero di qualità anche grazie al terreno. Viene infatti coltivato sui terrazzamenti della Setteponti, in mezzo agli olivi, perché qui c’è il terreno adatto per ottenere i migliori giaggioli: nel fondovalle o in riva al mare non avrebbero le stesse qualità”. Un piccolo tesoro che il Valdarno è stato in grado di conservare e custodire gelosamente, grazie soprattutto al lavoro della Cooperativa. Che ora guarda al futuro: “Fino ad oggi abbiamo sempre venduto soltanto il prodotto essiccato. Adesso abbiamo deciso di fare un passo avanti, affrontare una nuova sfida: abbiamo realizzato con la Regione Toscana un distillatore, qui nella nostra sede, e siamo pronti a realizzare il nostro distillato, il nostro burro di giaggiolo. In questo modo offriremo al mercato un prodotto già lavorato, di altissima qualità, e potremo valorizzare ancora di più questo tesoro delle nostre colline”.

 

Il video dal drone è di Gian Marco Martini; le foto della fioritura del giaggiolo a Caspri sono di Andrea Andreoli, che ringraziamo. 

Glenda Venturini
Glenda Venturini
Capo redattore

Articoli correlati