La ricerca di Arpat risale al biennio 1995-96: furono 59 i punti di campionamento nell’acquedotto pubblico, per verificare la presenza di fibre di amianto. Solo uno in Valdarno: al Pestello, dove la concentrazione rimase sotto il limite di rilevabilità. Nostra intervista all’esperto Giacomo Nacci: “I rischi per la salute per l’amianto nell’acqua sono infintamente più bassi rispetto all’eternit all’aperto, di cui spesso nemmeno ci accorgiamo. Un esempio? Le canne fumarie di cui sono pieni i nostri tetti”
Era il 1995, ormai quasi venti anni fa, quando la Regione Toscana commissionò ad Arpat uno studio sulla contaminazione da amianto nelle acque potabilizzate. Era la prima ricerca di questo tipo in Toscana: ed è rimasta l’unica, almeno fino ad oggi. Anche perché nel frattempo Arpat ha perso la competenza sulla qualità dell’acqua potabile, passata alle Asl.
Quello studio (qui in versione integrale) appare particolarmente importate oggi, quando è esploso un vero e proprio caso, con tanto di petizione perché venga eliminato l’eternit dalle tubature dell’acquedotto pubblico. A cosa portò quella ricerca? Nei fatti, dimostrò che la concentrazione di fibre di amianto nelle acque degli acquedotti pubblici era per la maggior parte non rilevabile, e nei pochi casi in cui fu rilevato si trovava in concentrazioni considerate bassissime. Ma andiamo con ordine.
“L’ipotesi che l’amianto possa avere effetti cancerogeni anche a livello di apparato digerente – si legge nell’introduzione della relazione – si è sviluppata agli inizi degli anni ’70, con i primi tentativi di individuare il rischio legato all’ingestione di fibre […]. Le fibre, direttamente ingerite oppure inalate e quindi in parte inghiottite, raggiungerebbero gli organi dell’apparato gastroenterico e, penetrandone la parete, svolgerebbero la loro attività cancerogena risiedendo in loco per decine di anni, così come avviene nel tessuto polmonare. Nonostante alcune ricerche abbiano riportato un’associazione positiva tra assunzione di acqua contaminata e insorgenza tumorale, non è stato associato alla presenza di fibre nell’acqua potabile un evidente eccesso di tumori. L’OMS non ha quindi definito un valore di linea guida relativo alla presenza di amianto nelle acque potabili”.
Anche in Italia, come ormai chiaro, non ci sono valori limite per la presenza di amianto nell’acqua potabile. Ma il testo della ricerca precisa che, nonostante queste premesse, “Comunque la veicolazione dell’amianto attraverso le acque costituisce una fonte di diffusione di questo contaminante nell’ambiente”. E dunque, ecco perché era importante andare a verificare la presenza di questo materiale nell’acqua dell’acquedotto.
La ricerca è stata svolta su 59 punti di campionamento in tutta la Toscana, con prelievi effettuati nel biennio 1995/96, di solito ‘a monte’ e ‘a valle’ dei possibili punti di inquinamento (ad esempio, tubature in amianto appunto) così da verificare se le caratteristiche dell’acqua siano state modificate da questi punti. In Valdarno c’è un solo punto di prelievo: è a Montevarchi, per la precisione al Pestello, l’area con la concentrazione più alta di tubature in eternit di tutta la vallata, messe in opera nel 1976. All’epoca dei prelievi, l’acqua del Pestello proveniva esclusivamente da un serbatoio di raccolta.
Risultati? “La presenza di tubazioni in cemento amianto non ha comportato per il campione prelevato a Montevarchi alcun rilascio di fibre”. L’eventuale presenza di fibre, si legge nella tabella dei risultati, resta inferiore al limite di rilevabilità che è di 1600 fibre/litro, valore relativo al conteggio di 1 fibra in 1 mm2 di superficie del filtro. Per capire la portata del risultato, occorre confrontarsi con altre ricerche internazionali (Usa, Olanda, Gran Bretagna): tutti casi in cui le acque considerate contaminate da amianto riportano concentrazioni superiori a 1 milione di fibre per litro.
Venti anni fa, dunque, il rischio era considerato nullo, almeno sul campione di Montevarchi. Ma oggi? “Le quantità di amianto che il nostro organismo arriva ad assorbire attraverso l’acqua potabile, sia ingerendola che inalandola dopo la sua evaporazione, è bassissimo. Non inesistente: ma infinitamente minori di quello che inaliamo in altre situazioni, magari senza accorgercene”.
Lo sostiene il geologo Giacomo Nacci, del laboratorio di analisi Ambienta di Montevarchi. “Ad oggi, nessuno ci ha mai chiesto di controllare la presenza di amianto nell’acqua potabile. Non è un valore per cui ci sono limiti per legge, e quindi di norma non è un parametro da esaminare. Ma se consideriamo che gli studi effettuati su popolazioni esposte a concentrazioni di fibre di amianto da 1 milione fino a 200 milioni per litro non sono considerate ancora risolutive, cioè non hanno dato la prova che un eccesso di tumori gastrointestinali sia correlata a consumo di acqua potabile contaminata a questi livelli, si può capire quanto basso possa essere l’impatto in Valdarno, dove si parla di concentrazioni decine di volte più basse”.
“Personalmente, ritengo che ci siano decine di altre fonti molto più pericolose di quelle tubature, che si trovano sottoterra, protette dalle intemperie, e quindi in linea di massima molto meno esposte a possibili deterioramenti. Un esempio? Le canne fumarie che riempiono i nostri tetti, in tutto il Valdarno. Forse non tutti lo sanno, ma moltissime sono state installate negli anni ’70 e ’80, quando l’eternit era il materiale più utilizzato: costava poco ed era destinato a durare (non a caso si chiama eternit). E per questo molte sono ancora in amianto, esposte a pioggia, sole e ghiaccio, potenzialmente a rischio spolvero. Ogni giorno, sui nostri tetti e anche all’interno delle nostre case”.