La vita di una famiglia che si intreccia in maniera indissolubile a quella del Paese, un padre di famiglia morto ammazzato, sua moglie che avvia un lungo e faticoso cammino verso il perdono, trovando nella fede la possibilità di riacquistare la pace. Quell’uomo è il Commissario Luigi Calabresi, e sua moglie è Gemma Calabresi Milite, che ieri è stata ospite al Centro Pastorale di Matassino, in una serata organizzata dalla Parrocchia guidata da Don Simone Imperiosi. La vedova Calabresi presenta e racconta la sua storia attraverso il suo libro “La crepa e la luce”, dialogando con Filippo Boni, vicesindaco di Cavriglia e scrittore; ad aprire la serata sono i saluti del Vescovo di Fiesole, Monsignor Stefano Manetti, che parla di una “testimonianza sorprendente e provvidenziale, un raggio di luce in un periodo di disumanità e pessimismo”. Presenti anche i sindaci di Reggello, Piero Giunti, e Figline e Incisa, Giulia Mugnai; ma soprattutto, centinaia di persone, che hanno affollato il Centro pastorale “Pino Arpioni” per ascoltare le parole di Gemma Calabresi.
Il racconto parte dal ritratto di famiglia, Gemma che conosce Luigi ad una festa, il matrimonio. Lei è incinta del primo figlio quando scoppiano le bombe di piazza Fontana: è l’evento che cambia il corso della storia d’Italia ma anche della sua famiglia. Durante un interrogatorio sui fatti di Piazza Fontana, l’anarchico Giuseppe Pinelli cade dalla finestra della Questura e muore. “C’erano cinque persone in quella stanza, mio marito non c’era”, racconta Gemma Calabresi. “Eppure diventò il capro espiatorio dell’evento, bersaglio di una campagna diffamatoria basata sulle bugie. Ricordo che cambiò tutto per noi: Gigi mi raccomandava di guardarmi sempre alle spalle, di non usare il suo cognome, di non dire con chi ero sposata. Vivevamo così, di regole e paura, anche se io avevo i bambini, erano già nati i primi due, che mi tenevano occupata”.
Fino al 17 maggio 1972, quando Luigi Calabresi fu assassinato per mano di due terroristi di Lotta Continua, appena uscito dalla sua abitazione per andare al lavoro. “Di quella mattina ricordo che Gigi mi salutò, poi tornò indietro e si cambiò cravatta, ne scelse una bianca. Mi disse: ‘Bianca come simbolo della mia purezza’. Sono le ultime parole che gli sentii pronunciare. Poi arrivò la notizia, il mio smarrimento, le persone intorno a cercare di sostenermi”. E in quel momento avvenne qualcosa in quella donna, appena vedova, incinta del terzo figlio, che lei avrebbe capito a pieno solo più avanti: “Improvvisamente, ero sul divano, mi sentii come pervasa da una sensazione di pace fisica che non aveva senso. Ricordo che dissi, ‘voglio pregare per la famiglia dell’assassino’, parole che non erano farina del mio sacco. C’era qualcuno lì con me”.
È il primo di una serie di segni che Gemma Calabresi raccoglie in tutta la sua vita. “I segni sono quelli che capitano a tutti nella vita, ma vanno saputi leggere e accettare. Mi sono accorta con il tempo che potevo farcela, rialzarmi, anche dopo un dolore lacerante, cambiare punto di vista sulle persone. Per lungo tempo pensavo di non farcela, è stato faticoso, il processo stesso è stata una pagina lunghissima e dolorosa. Negli anni ho sognato e meditato anche la vendetta. Oggi però ho trovato nella fede la capacità di donare perdono, dopo un percorso faticoso. Ho visto gli assassini di mio marito non più soltanto come assassini, non li ho più giudicati solo per quello che hanno fatto di male: ma li ho guardati come persone, ho ridato loro umanità. Ho fatto il contrario di quello che accadeva negli anni di piombo, quando le persone venivano private della loro umanità, bollate come simboli, oggetti di una causa. Ho ridato ai responsabili della morte di mio marito umanità, e ho perdonato”.