25, Dicembre, 2024

Lavato il sangue resta la paura: la vita a Parigi dopo gli attentati

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All’indomani degli attentati del 13 novembre Valdarnopost pubblicò la testimonianza di MarcoMora, valdarnese che abita nella capitale francese. A una settimana di distanza, ecco un suo nuovo reportage

A pochi giorni dagli attentati terroristici del 13 novembre a Parigi, Valdarnopost pubblicò una testimonianza del valdarnese MarcoMora, scrittore che da nove anni abita nella capitale francese, sugli attacchi armati nel I, X e XI arrondissement di Parigi e allo Stade de France. Più racconto che cronaca, più narrativa che giornalismo, un reportage narrativo sull'esempio di quello che nel mondo anglosassone viene definito “Literary non fiction”.

Alle prime luci del 18 novembre le forze dell'ordine francesi hanno dato inizio a un lungo blitz nella banlieue parigina di Saint-Denis che ha portato all'uccisione di Abdelhamid Abaaoud, presunto organizzatore degli attentati di pochi giorni prima. MarcoMora ci ha inviato una seconda testimonianza su queste ultime giornate parigine. Lo pubblichiamo di seguito.

A neanche 48 ore dagli eventi sanguinari che hanno scosso Parigi, intorno alle 7 di sera di domenica 15 novembre, sto lavorando, quando la gestrice della boutique accanto a quella dove sono impiegato prende a gesticolarmi, tutta concitata, segnali d’allerta a traverso la vetrina del negozio. Col mio collega, Bertrand, usciamo e – messi al corrente delle fucilate e del conseguente movimento di folla che sta avendo luogo a 300 metri da noi, chiudiamo bottega in tempo record. Fuori, i tavoli esterni dei bar sono stati abbandonati ancor più alla svelta: i bicchieri lasciati a metà, le sedie malamente smosse. Silenzio di tomba.

Ci facciamo strada, guardinghi, per vicoli secondari verso Piazza della Bastiglia. Lungo il percorso incontriamo gente che nel fuggi fuggi generale parla al telefono di attentati in Place de la République, al Marché de Sainte Catherine… – Il mio collega ha ricevuto una sfilza di messaggi su ciò che sta accadendo nella nostra zona ma anche altrove; avanzando con circospezione davanti a me me li recita succintamente: schioppettate, parapiglia e pigia pigia in tutto il centro. «Ma che fate!? Non andate sul boulevard!» ci somma una ragazza che corre nell’altro senso con un bimbo in collo.

Giunti a Bastiglia, dove c’è molta agitazione, troviamo la rue Saint Antoine bloccata dalle camionette della prefettura e da schieramenti d’agenti in assetto antisommossa. Bertrand non ci pensa neanche a prendere la metropolitana e mi domanda se posso portarlo via di lì in moto con me. Rimuovendo l’antifurto del veicolo sento gridare in direzione del posto di blocco «Che credevate che avrebbe dato, come conseguenze, di fare il nostro porco comodo all’estero!? Ci sta bene! E’ quello che ci meritiamo!!». Svignandocela dalla suddetta piazza simbolo della rivalsa popolare, fra la calca in subbuglio passiamo davanti allo stoico arringatore, un ventenne dai tratti contratti vestito da hippy.

Per le strade c’è un traffico impressionante. Zigzagando in mezzo alle file d’automobili quasi ferme e buscandoci salve di clacson dobbiamo cambiare tragitto ogni poco, ché barricate simili a quella di prima si susseguono regolari. Il rosso ai semafori è diventata una pura formalità, gli scooter fanno terra franca dei marciapiedi, io interpello uno di questi piloti dallo smartphone incastonato fra casco e capoccia per domandargli «Che ne è di Porte de La Chapelle, si passa?» – «Non ne so nulla, tipo.» mi risponde costui «La gente scappa ovunque, ma io son arrivato. Bon courage hein!».

Un quarto d’ora dopo siamo in pole position di quest’ultimo imbottigliamento, faccia a faccia con una dozzina di celerini situati sull’altra sponda dell’incrocio. Uno di loro attira la mia attenzione, smanaccando e passandosi ripetutamente un braccio sopra la testa. Mentre penso che non permetterò più che un Francese mi sfotta perché gesticolo – in quanto si tratta chiaramente d’una forma espressiva trasversale a tutti i Cugini latini, un suo commilitone mi si piazza dritto davanti, prende un bel respiro e mi striglia fino a svuotarsi i polmoni «Vuol parlarne con me, monsieur?! Che stupidaggini sono queste, in moto senza casco!! Faccia scendere immediatamente il passeggero!». Lì per lì non realizzo, ma è vero che Bertrand il casco non ce l’ha mica…

Il cazziatone m’ha ghiacciato un bel po’. Temo che mi ritirino la patente seduta stante, allora replico timidamente «Ma… lavoriamo nel Quarto Arrondissement! Ci hanno detto che c’era una sparatoria… Siamo scappati tali e quali… Mi scusi.» – «Non c’è stata nessuna sparatoria laggiù!» riprova il soldato «Bisogna smettere di credere a tutto quello che vien detto, o qui si diventa pazzi per davvero! Circolare!!». Mai frase più saggia uscì dalla bocca di una guardia. Che gentile, non mi ha neanche fatto la multa. Mi domando se non sia semplicemente perché in questo momento ha altre gatte da pelare, ma preferisco tenermi il dubbio e levarmi dai quattro passi alla velocità massima consentita; non vorrei cambiasse idea. Colla coda dell’occhio cerco Bertrand: il carico non sdoganabile mi saluta con un cenno di mesto ringraziamento (una volta a casa lo chiamerò per assicurarmi che abbia ritrovato la retta via senza altri intoppi).

Nonostante l’allarme, è stato scellerato prendere in sella qualcuno senza casco, soprattutto in condizioni di traffico tale; non è da me. Me ne voglio per avergli fatto correre un rischio forse maggiore a quello che avrebbe corso se se ne fosse rientrato in metro, a piedi o che so io. Levando gas via via che m’accorgo di sforare ripetutamente i limiti di velocità, mi frustra oltremodo di non sapere da cosa stia fuggendo. Lungo il Périphérique Extérieur (il Raccordo Anulare parigino) le parole dell’uomo in divisa mi risuonano in testa. Che si sia preso tutti una bella cantonata? A giudicare dalla condotta degli automobilisti che mi sfrecciano accanto il pericolo sembra esserci o esserci stato, ma insomma – sul Périphérique guidano sempre tutti come pazzi, allora non saprei far grandi distinzioni; ho furia di sapere che cavolo è successo, di preciso.

Apro l’uscio di casa e la mia ragazza tira un sospiro di sollievo. «Si può sapere che cavolo…» – «Niente, niente alla fin dei conti.» mi dice lei «Durante gli assembramenti di commemorazione, a République ed altrove, certi cretini si sono divertiti a scoppiare dei petardi. Ti lascio immaginare la reazione della folla… Dapprima la polizia ha creduto al peggio, poi si è mobilitata per incanalare il marasma ed evitare che i manifestanti si travolgessero reciprocamente.» (…) Alla luce dei fatti, più del solito mi sento un coglione; se da una parte son lieto che non ci sia il morto, dall’altra continuo ad incazzarmi con me stesso per aver prestato orecchio ai primi schiamazzi, all’abbindolamento delle miccette. – Aiuto SuperGiovane!

Appena due giorni dopo, invece, c’è il fumo e c’è l’arrosto. Mercoledì 18, al mattino, le notizie del blitz dei corpi speciali a Saint Denis (qui vicino a dove abito) anticipano la mia sveglia. Spari e sconquassi vari già nel cuore della notte: una palazzina sotto assedio, una donna kamikaze si fa esplodere caricando gli assaltatori, tutto il viale è zona di guerra. Condotta con fermezza, l’operazione durata circa 8 ore ha nondimeno portato all’uccisione e alla cattura di fanatici – a quanto trasmesso – legati alle stragi di venerdì 13. E’ già qualcosa. Spero siano stati neutralizzati tutti quanti, quest’infami che pare stessero affinando nuovi attentati.

Ahimé, la mia resta una mera speranza perché si sa, che c’è fermento terroristico, e si avverte che la tensione è lungi dallo scendere qui in Francia, in Italia, in tutt’Europa e al di là. Pressocché univoci, gli apparati mediatici nazionali imputano gli accaduti all’insufficienza delle contromisure prese sinora e alla mancanza di coordinazione dei servizi segreti. Un reportage televisivo francese ci informa che affluiscono matricole nell’Armée; oltreoceano, gli Stati Uniti si rammaricano che il Vecchio Continente abbia avuto da obiettare sul controllo dei dati internet. A livello internazionale, il numero di poliziotti, di militari e di forze speciali spiegato sul campo è in netto aumento. Quindi adesso si potrebbe star più tranquilli. O no?
Vi assicuro che già prima degli attentati di Charlie Hebdo, per le strade si potevano osservare ragguardevoli commandi; e nelle stazioni, presso i siti turistici e un po’ dappertutto non si aveva punto l’impressione che lo stato lesinasse sul dislocamento di truppe… – Ciò non ha impedito le carneficine di gennaio né quelle del mese corrente. Beninteso: altri complotti assassini sono stati sventati e cert’altre organizzazioni minatorie della pubblica incolumità debellate senza che se ne parlasse altrettanto, giacché siamo più sensibili alla tragedia che alla sfiorata tragedia. Probabilmente bisogna insistere su questa linea, se la strategia porta frutti («on ne change pas une équipe qui gagne»). La decisione non mi spetta. Di sicuro le misure di sicurezza prese e da prendere sono e saranno nel nostro interesse. Basterà accettare di buon grado di vivere in uno stato poliziesco, prendere il toro per le corna e non badare ai mitra imbracciati quando ci si reca a comprare il pane. Così sia.

Tanto, per il momento la questione da affrontare è un’altra: come fare a non morire di paura vivendo il quotidiano. Ossia come non pensare al gilet del vicino di sedile in treno, eventualmente esplosivo; come vincere il timore di una vigliacca raffica di proiettili tirata da un’auto in corsa mentre si sorseggia un caffè nella terrazza d’un bistrot; come non supporre un attacco batteriologico che si propagherebbe via i condotti d’aerazione della metropolitana e di cui potremmo già essere le vittime ignare. Sepolti gli innocenti e tutte le vittime dell’ignoranza, la cui ‘‘colpa’’ è stata di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato (figuriamoci un po’…), la domanda a cui rispondere rimane Come non soccombere al terrore che è l’arma preferita dai terroristi – poiché l’arsenale di cui dispongono è ‘‘solo’’ l’elsa di questa spada, e il sottile tessuto sociale in cui ne affondano la lama spaventosa è il nostro.

Constatata l’ampiezza dei fendenti menati, ciascuno è libero di forgiarsi lo scudo psicologico atto a pararli. C’è chi, coraggiosamente, prona la solidarietà organizzando riunioni negli spazi urbani per accendere delle candele, in barba al pericolo gravante sulle manifestazioni; c’è chi relativizza dicendo che ogni giorno nel mondo migliaia di persone crepano in maniera brutale, venendo trattato da insensibile – come se i suoi accusatori, empatici come si dicono, piangessero quotidianamente per il bambino che muore di fame ogni 6 secondi o per le donne scempiate ad ogni crocicchio dell’Africa in guerra… -; qualche internauta fa di Diesel, il cane d’assalto morto nel raid di mercoledì, un vero eroe; il presidente Hollande parla alla nazione, le dice che ora fa sul serio; un buon numero d'individui (tant’è che ne faccio parte) tira a campare; taluni si deprimono, talaltri hanno dentro la rabbia. D’altronde, la strategia bellica impiegata da questi scalmanati ci spinge ad andare dallo psicologo o dall’armaiolo. Ma se vi prendesse la voglia di tirar fuori la doppietta del nonno, badate al monito che danno certe emissioni per ragazzi: non cercate di fare a casa quello che avete visto in televisione!

 

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