Dopo il caso della donna dipendente di un’azienda di Terranuova, che ha portato alla denuncia di tre uomini per comportamenti riconducibili a quello che comunemente si chiama mobbing sul lavoro, Valdarnopost ha raccolto altre testimonianze. E ha chiesto all’avvocato Piera Santoro come è possibile difendersi e vedere riconosciuti i propri diritti, in questi casi
Pressioni, soprusi, vessazioni e accuse: parte da questi comportamenti, reiterati nel tempo, il mobbing sul luogo di lavoro. Il caso della donna dipendente di un’azienda di Terranuova, che ha portato alla denuncia del suo titolare e di due colleghi, ha suscitato molte reazioni in Valdarno. E ci sono state altre donne che hanno raccontato le loro esperienze, anche molto simili a quella, a Valdarnopost.
“Anche io ho subìto la stessa cosa, per mesi – è la testimonianza di una ragazza che vuole mantenere il suo anonimato – e a dire il vero ho provato anche a reagire e difendermi: nel mio caso, però, non ho trovato altro che porte chiuse. Mi ero rivolta all’Inail, e ho avviato una lunga e complessa procedura di riconoscimento del danno provocato da quel trattamento subìto sul luogo di lavoro. Alla fine, però, tutto invano”.
Lei quel posto di lavoro oggi lo ha lasciato, così come hanno fatto altre vittime di mobbing. Non tutte queste persone hanno però denunciato, per motivi anche molto diversi da caso a caso. Ma come si deve comportare un dipendente quando ritiene di essere vittima di soprusi di questo tipo, da parte del datore di lavoro, di superiori, o colleghi in generale? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Piera Santoro.
“Partiamo da un presupposto: non esiste il mobbing come figura di reato in sé. Questa definizione comprende una serie di comportamenti messi in atto dal datore di lavoro che configurano reati previsti dal codice penale o civile. Penso, ad esempio, a persecuzione, minaccia, molestia, maltrattamento, diffamazione, discriminazione. Quando un dipendente ritiene di essere vittima di comportamenti di questo tipo, la prima cosa da fare è presentare denuncia alle autorità competenti”, spiega l’avvocato Santoro.
“Il consiglio che possiamo dare, in questo caso, è di raccogliere più prove possibili di quello che avviene in azienda. Sono fondamentali, infatti, per dimostrare di essere sottoposti a queste vessazioni continue”. Da lì parte poi un procedimento che potrà arrivare in sede penale, se i reati vengono effettivamente riscontrati; ma anche in sede civile.
“Le conseguenze che il mobbing può avere su una persona sono anche psicologiche e morali. Ed è in sede civile che ci si può rivolgere per ottenere un risarcimento, perché il compito del datore di lavoro è di tutelare l’integrità psicofisica del dipendente: un compito di cui, in questi casi, si dimostra inadempiente”, conclude l’avvocato Piera Santoro. Infine, in sede di Inail si può chiedere il riconoscimento della malattia del lavoratore provando che questa sia legata da un rapporto di causa-effetto con le vessazioni subìte.