In occasione del Giorno della memoria, ripercorriamo la storia del reggellese Dante Rabatti, che dal settembre 1944 al maggio ’45 fu prigioniero di guerra nelle isole dell’Egeo, poi nei Balcani e in Germania. Da questa terribile esperienza, però, Dante Rabatti ha voluto evidenziare anche l’umanità che trovato durante i tempi della prigionia e che ha messo dentro il suo libro, “Il resto è storia”.
Il Giorno della memoria riporta ogni anno a soffermarsi sulla terribile parentesi dell’Olocausto, comportando momenti di riflessione importanti: la redazione di Valdarnopost ha così contattato il figlio di Dante Rabatti, Angelo. Sebbene Dante Rabatti sia morto nel 2019, a 96 anni, la sua storia è ancora in vita grazie al figlio Angelo e soprattuto al libro da lui stesso scritto, “Il Resto è storia”.
“Parlerò esclusivamente di quello che ho fatto. Tutto il resto è storia, vissuta insieme ad altri. Io parlerò di quello che veramente ho fatto, come l’ho fatto e perché l’ho fatto”, esordisce nel suo libro.
Il figlio di Dante Rabatti, Angelo ha rilasciato alla nostra redazione un’intervista nella quale ricorda l’esperienza del padre: “Mio padre era un carabiniere molto orgoglioso, fu proprio l’Arma ad aiutarlo a rimettere in piedi la famiglia quando tornò a piedi da Mannheim in Italia. Mi raccontava spesso della sua Odissea. Il mio babbo è sempre rimasto per me e le mie figlie un punto di riferimento, era una persona di una certa saggezza, con cui confrontarsi. La cosa più importante che ho visto in lui, come si capisce anche dal libro, è che non c’è mai una parola di odio, quello che si è portato dietro è sempre stata la convinzione della brutalità della guerra che debba essere evitata. Verso i tedeschi aveva recriminazione, ma non era questo il centro del suo pensiero quanto il bene che aveva avuto in quel periodo”.
Dante Rabatti nacque nel 1923 a Reggello da una famiglia di origini contadine, ma come racconta lui stesso nel suo libro aveva dentro di sè un forte senso di responsabilità civile, che lo portò ad arruolarsi nell’Arma dei Carabinieri quando ancora non aveva vent’anni. Passato il periodo di addestramento a Torino, per poi essere spostato alla Caserma dei Carabinieri di San Sepolcro. Il suo Maresciallo d’allora lo mandò poi, a guerra quasi finita, presso l’isola greca di Samo, “una zona di guerra nelle scacchiere del Mediterraneo” la descrive il Rabatti, senza nemmeno aver completato i cinque mesi di addestramento obbligatorio. La parentesi di Samo fu avvertito dallo stesso Dante Rabatti come l’inizio della paura e del pensiero della morte.
Nel novembre 1943 venne fatto prigioniero dai tedeschi, così Dante Rabatti ricorda quel momento: “Quel terribile giorno, quando fui disarmato, perquisito, depredato, rimasi stordito. In un attimo avevo perso tutto: libertà e dignità. Ero solo un miserabile prigioniero di guerra, N. 07817“. Dante venne rinchiuso in un recinto di filo spinato assieme ad altri prigionieri, per poi essere prelevato e trasportato via dai tedeschi con una camionetta verso il monte Kerkis:
“La paura divenne spavento quando i tedeschi piazzarono la mitragliatrice sopra la camionetta, puntandola verso di noi prigionieri. Mentre camminavo, tremando come una foglia, vidi due morti a pochi metri distanti da noi. Fui costretto, sotto minaccia, a togliere gli stivali e poi scavare la fossa e compiere la sepoltura. Il coraggio mi venne a mancare quando dovevo buttare la terra su quella faccia da bambino, come la mia“.
Questo viaggio atroce e sfiancante, senza cibo e acqua, portò Dante Rabatti in un capannone ad Atene, dove i tedeschi fecero patire la fame e la sete ancora di più ai prigionieri. Dante Rabatti rimase ad Atene fino al 24 dicembre 1943, per essere portato nel campo di concentramento di Pozarevac (ex Jugoslavia).
“Il campo era formato da sei baracche di legno, circondato da doppio reticolo di filo spinato. Le sentinelle tedesche sorvegliavano il campo in continuazione. Quel campo aveva un aspetto squallido e tenebroso. Fin dal primo giorno ci diedero da mangiare: un ramaiolo di cavoli sott’aceto e una fetta di pane nero di circa un etto. In ogni baracca si dormiva in cento prigionieri sistemati in castelli a tavole di legno a due piani. Quelle misere tavole erano piene di cimici e pidocchi. Per 11 mesi succhiarono il mio sangue“, così Dante Rabatti descrive la prigionia a Pozarevac.
In seguito, venne trasferito in Germania. Nel libro di Dante Rabatti i vari spostamenti, i viaggi da una prigionia all’altra sono descritti con una lucidità feroce, come un’odissea mortifera che non ha fine. “Il viaggio proseguiva senza lamentele. Le nostre condizioni di vita non erano peggiorate- continua Dante Rabatti– In quel momento le mie, le nostre pene erano causate dalla fame, dal freddo e dal fastidio dei pidocchi, quindi meglio che in prigionia, perché là dovevamo soffrire anche per il pesante lavoro, per la stanchezza e per i morsi delle schifose cimici“. Il suo nuovo viaggio lo porterà poi a Mannheim, presso un campo di concentramento in cui lavorò duramente, ma che lasciava ai prigionieri un minimo di libertà potendosi muovere qualche ora nel paese. Qui, il figlio Angelo racconta che suo padre gli rammentava spesso di un episodio toccante: la padrona di un forno e sua figlia che gli davano di nascosto dei tozzi di pane. Dante venne poi trasferito a Heidelberg, luogo in cui iniziò a sperare e vedere il suo ritorno a casa, “In quei giorni tutti procedeva bene. Era come se già respirassi l’aria di casa mia“, scrive Dante Rabatti.
Tuttavia, dal libro e dalla parole di suo figlio Angelo traspaiano fortemente anche numerosi momenti di umanità vissuti da Dante stesso, come “il professore” tedesco che decise di curarlo:”Oggi, a distanza di tanti anni, continuo a domandarmi perché fui preso in considerazione da quel professore, che ebbe pietà di me e mi salvò la vita. Chi era quel caporale che scrisse la lettera di presentazione e dopo tradusse in italiano tutta la modalità della cura? Non dimenticherò mai quelle due persone. Mi sento in colpa verso di loro, devo loro la vita”.
Dopo 18 mesi in balia dei tedeschi, finalmente Dante Rabatti venne liberato dalle truppe americane. Da qui la sua ultima odissea verso casa, dalla paura di non tornare mai più a Reggello alla rischiata morte durante l’attraversamento del fiume Adige. Arrivato a Firenze, poi da lì i nomi di paesi che facevano parte della sua infanzia e conoscenza, nei quali si sentì chiamare per nome per la prima volta dopo ventinove mesi.
“Nessuno era rimpatriato dei miei paesani- scrive ancora Dante Rabatti– Io rappresentavo l’inizio del ritorno a casa di tutti i deportati in Germania. Furono momenti di grande emozione, fra pianti e abbracci, colmi di gioia“.
(Dante Rabatti durante una conferenza a Reggello per le celebrazioni del Giorno della Memoria nel 2016)
Il pensiero di Dante Rabatti si può riassumere in queste parole, parole che ancora oggi suonano, purtroppo, ancora come un eco lontano date le numerose guerre scatenate negli ultimi anni. Tuttavia, il Giorno della Memoria deve essere visto come un cruciale momento di riflessione personale, e universale, affinché le parole scritte da Dante possano essere finalmente gridate.
“Voi giovane siate saggi, cancellate, cancellate veramente, anche il nome della guerra. Lo chiedono migliaia e milioni di martiri, senza nome, mai ricordati, dimenticati da tutti. Il grido di pace, di perdono, di giustizia, è gridato, notte e giorno, da tutti i morti in guerra, di tutte le guerre“.