Innocenti, Mannucci, Bongi, Cavallini, Goretti e Vagelli: sono i nomi dei componenti della banda che nel 1905, per la precisione nella notte fra il 10 e l’11 maggio, portarono via il bassorilievo di Buglioni dal Ponte agli Stolli, quell’opera che oggi si trova esposta al Cleveland Museum of Art. All’Archivio di Stato di Firenze sono ancora conservati gli atti delle indagini e le carte processuali: un faldone che racconta quel furto, ma non solo, visto che la ‘banda’ era specializzata proprio in furti di questo tipo, in particolare opere della scuola robbiana, terrecotte invetriate, che poi spesso venivano portate oltre confine, verso il territorio francese, e rivendute a caro prezzo.
La redazione di Valdarnopost è riuscita a consultare questi fascicoli anche grazie all’importante lavoro di approfondimento e ricerca dello studioso Victor Rafael Veronesi, che si è particolarmente appassionato a questa vicenda, in seguito ai nostri articoli oltre che all’interrogazione parlamentare che ha avuto come prima firmataria la senatrice Margherita Corrado.
All’indomani del furto, era stata la famiglia Menchi, proprietaria della cappella in cui era stata installata l’opera, a finire al centro dei sospetti: le indagini però permisero di appurare che i Menchi erano estranei ai fatti. Poi il capitano dei Carabinieri di Pontassieve Bonera avviò nuove indagini, e così fu possibile ricostruire l’operato della banda. Per quanto riguarda l’opera di Buglioni i sei imputati furono accusati di “furto doppiamente qualificato per essersi impossessati di un bassorilievo robbiano rappresentante la Madonna con due Santi del valore di circa 20.000 lire, ai danni e senza il consenso dei componenti la famiglia Menchi, ai quali apparteneva pro indiviso, togliendolo nella notte dal 10 all’11 maggio 1905 da una cappella nella quale penetravano mediante scasso della porta di ingresso, sita in contrada Ponte agli Stolli in quel di Figline Valdarno”.
Tra i faldoni dell’inchiesta si trovano alcune interessanti testimonianze. A settembre 1906, tale Pilade Binelli racconta, sentito dagli investigatori, che qualcuno gli aveva confidato che “il Passerellino (soprannome del Mannucci, ndr), il Pecoraino (soprannome di Goretti, ndr) e altri due, che non ricordo, commisero nel maggio 1905 il furto della Madonna del Ponte agli Strolli”. Le indagini vanno avanti, per appurare sia quanti furti abbia commesso la banda, sia la direzione presa dalle opere rubate. Si trovano così numerosi interrogatori, e solo in alcuni viene nominata ancora la Madonna di Ponte agli Stolli. Interrogato a marzo del 1907, Giuseppe Somigli raccontava: “Il Mannucci mi raccontò anche di un altro furto, e cioè del furto della Madonna del Ponte agli Stolli. Mi disse che un giorno di domenica si era recato colà per vedere la Madonna, e studiare il modo di rubarla. Poscia era tornato al Ponte agli Stolli per commettere il furto insieme al Nardi Salvatore, il Cavallini Fortunato e al Bongi. Tutti e quattro insieme avevano commesso il furto, ma non mi dichiarò in modo esplicito che l’Innocenti si sia occupato anche della vendita di questa Madonna”. Innocenti, considerato una sorta di capobanda, era colui che poi metteva per così dire “a frutto” i colpi, rivendendo le opere. In un altro interrogatorio a maggio 1907, viene sentito Giovanni Magnelli, che svela qualcosa in più sul percorso fatto dall’opera dopo il furto: “L’altra Madonna, degli Stolli, fu invece portata verso Firenze sul barroccio del Vaggelli Serafino, e non so precisamente presso chi venisse depositata, ma mi pare che il Becherini mi dicesse che era stata portata a Montorsoli […] e di lì era stata poi portata via sopra un’automobile non so verso quale direzione”.
Il processo si svolge a carico di ben 14 imputati, colpevoli a vario titolo (per furto o ricettazione, principalmente) in tre diversi furti: uno ai danni degli eredi Passalaqua, quello di Ponte agli Stolli e infine quello commesso ai danni del Conte Bardi Serzelli a Pelago. In tutti e tre i casi si trattava di madonne della scuola robbiana, e va ricordato a tal proposito che lo stesso bassorilievo di Ponte agli Stolli veniva inizialmente attribuito, in maniera erronea, a Luca Della Robbia, salvo poi invece riconoscerne l’attribuzione a Benedetto Buglioni. Per il furto di quest’opera nella sentenza di condanna viene descritto come avvenne il furto della Madonna, che si trovava all’interno di una cappella che il giudice definisce precisamente “di patronato della famiglia Menchi ma pubblicamente aperta e destinata al culto”, particolare non di poco conto per poter decretare che il bene era in realtà considerato a tutti gli effetti pubblico, e quindi per poterne chiedere la restituzione al Museo di Cleveland. L’opera, stimata del valore di 20mila lire, fu portata via forzando prima la chiave del cancello della cappella, poi i supporti con cui era ancorata alla parete.
I successivi passaggi diventano meno chiari: portata via probabilmente su un carretto (dalle carte si capisce che la banda operava spesso così, dividendo le opere in parti che venivano nascoste in casse da vino, con la dicitura “fragile” sopra) venne forse inviata verso Ventimiglia, in Liguria, per poi varcare il confine con la Francia: la si ritrova infatti nel 1911 come proprietà dell’antiquario di origine tedesche Heilbronner, che sembra fosse un commerciante senza scrupoli di questo tipo di opere d’arte. A lui rimane fino al 1914, quando all’inizio della Prima Guerra Mondiale il governo francese dispone il sequestro di tutti i suoi beni che vengono poi venduti all’asta nel giugno 1921. Da qui in poi si rifanno più chiare le tracce, perché come recita anche l’interrogazione della senatrice Corrado, “venduto all’asta tenutasi il 22-23 giugno 1921 alla Galleria George Petit di Parigi, attraverso Jacques Seligman passò alla P.W. French & Co e da quella al citato J.H. Wade II, che lo cedette al CMA”, e di questi passaggi ci sono tuttora molti documenti.
Come fu complesso il percorso del bassorilievo di Buglioni attraverso l’Europa per arrivare fino negli Stati Uniti, così appare oggi complessa la ricostruzione di quella storia, possibile solo grazie ai tanti documenti dell’epoca. Ci sono infatti decine di trafiletti di giornale, sia italiani che francesi e tedeschi, risalenti al 1905, che si occuparono di quel furto e delle altre opere robbiane trafugate: segno che l’interesse era notevole. C’è soprattutto un particolare da non dimenticare: dal 1902 in Italia era entrata in vigore la Legge Nasi, che per la prima volta introdusse il diritto di prelazione da parte dello Stato e il divieto d’esportazione dei Beni culturali. Insomma, il bassorilievo del Ponte agli Stolli era protetto dalla legge e non poteva non solo essere rubato, ma neanche portato oltre confine. Per questo tuttora si trova nell’elenco dei beni sottratti illecitamente del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Per questo, oggi, l’iniziativa della senatrice Corrado, le ricerche del dottor Veronesi e l’inchiesta di Valdarnopost hanno un obiettivo comune, quello di chiedere la restituzione del bene all’Italia, e alla comunità figlinese che se lo vide portar via oltre un secolo fa.