Francesco Ristori, giovane valdarnese residente in Gippone da sei anni, racconta l’esperienza della pandemia vissuta all’estero. Tra il conformismo giapponese, inaspettati balzi avanti nello smart working e meno del 5% della popolazione vaccinata, vediamo come la pandemia sia stata vissuta all’estero
Francesco Ristori , classe 1987, vive a Montevarchi fino al 2014, anno in cui da’ una svolta alla sua vita intraprendendo un viaggio in moto che l’ha portato in Giappone. Un po’ per scommessa, un po’ per fortuna il Giappone è diventato la sua seconda casa dove ha trovato il lavoro e l’amore.
Cosa ti ha spinto a restare in Giappone?
"Una sorta di combinazione astrale mi ha permesso di trovare lavoro presso una compagnia di interior/architectural design ad Omotesando, Tokyo: un sogno avverato, che sommato a mia moglie Yasuko con cui mi sono sposato nel 2018 mi ha spinto a rimanere fino al presente".
Una volta scoppiata la pandemia quando vi siete resi conto che il virus era diventato un pericolo concreto? I giornali e i notiziari hanno iniziato subito a parlarne?
"In Giappone il virus era una “questione esterna” all’inizio, ai giapponesi a volte piace pensare a sé stessi come ad un’isola immune dai problemi internazionali. La cartina al tornasole fu la nave da crociera Diamond Princess, dove per disgrazia si sviluppò un caso di coronavirus: il fato volle che la nave si trovasse in acque giapponesi ed il Giappone fu costretta ad “accoglierla” nel porto di Yokohama, salvo poi segregarla come una prigione galleggiante per evitare contatti con i contagiati, fino poi allo sbarco oltre 3 settimane dopo, obbligato dalla situazione completamente degenerata all’interno".
"Subito dopo i primi casi di coronavirus si diffusero anche in territorio nazionale, ed il governo fu costretto a riconoscerli dopo forti pressioni di medici e consulenti tecnici, ma col trucco: i numeri furono (e sono tuttora?) “calmierati” dal numero di test vergognosamente basso (per preservare le Olimpiadi?): il resto è storia contemporanea".
E’ stato difficile adattarsi a una vita casalinga? Lo stile di vita giapponese ha aiutato o ostacolato questo nuovo adattamento?
"Il 2020 è stata una sorpresa, ha fatto fare un balzo di anni al sistema lavorativo giapponese rendendo possibile quello che nessuna riforma era mai riuscita a concretizzare: lo smart working. Sì, perché il Giappone è una nazione poco efficiente dal punto di vista del lavoro, che ancora dipende da fax e hanko (un timbro che si usa al posto della firma), dove le teleconferenze erano quasi sconosciute fino a un paio di anni fa, e le gerarchie ancora molto influenti nella società avevano bloccato ogni tipo di avanzamento".
"Fortunatamente nel 2019 mi ero mosso un po’ fuori dal centro per permettermi di vivere in qualche mq in più, e la comodità di un paio di stanze extra da usare come ufficio ha aiutato tantissimo: l’impiegato medio fino ai 30 anni vive in cubicoli di 20mq dove immaginerete che è impossibile implementare lo smart working, e questa è una delle altre barriere che ha bloccato l’avanzamento del telelavoro in terra giapponese. Il rovescio della medaglia è che finita la pandemia si tornerà certamente a lavorare senza possibilità di scelta tra ufficio e ambiente casalingo, utilizzando i famosi treni metropolitani dove si entra a spintoni".
I provvedimenti e i controlli dovuti al lockdown sono stati restrittivi? Hai avuto l’impressione che venissero rispettati in linea di massima dalla popolazione?
"La costituzione moderna, “regalata” dagli americani al popolo giapponese al termine della guerra, è una di tipo pacifista, che non permette ai corpi militari di attaccare nessuno stato neanche quando si tratta di coadiuvare un alleato in missioni internazionali. Allo stesso modo, per la rigidità imposta da questa costituzione, il governo non possiede molti strumenti coercitivi per obbligare la popolazione al coprifuoco e gli esercizi commerciali a limitare la propria attività. Ne è derivato che ogni provvedimento aveva carattere di richiesta e non costituiva ordine tassativo, ed è qui che viene fuori la cosa interessante: i giapponesi effettivamente rispettavano quanto “gentilmente richiesto” da autorità nazionali e locali!".
"Il senso di comunità, o se la si vuole vedere da un angolo diverso, la paura di essere additato come “diverso”, ha spinto la maggior parte della popolazione a fare quello che facevano tutti: limitare le uscite, porre limiti ad orari di apertura e chiusura dei negozi, adottare lo smart working. Chi non rispetta le direttive viene semplicemente listato in un elenco accessibile al pubblico, secondo la regola del “name and shame”, che in occidente non avrebbe alcun effetto. Ora, quello che è successo realmente è che le masse si sono spostate in periferia, ed invece che uscire nei centri della vita sociale sotto i riflettori dei media, tante piccole collettività hanno cominciato a “rivitalizzare” le città dormitorio ai limiti dei centri produttivi. Del resto, mangiare fuori, fare acquisti in famiglia, andare in palestra e via dicendo, sono attività che non hanno mai subito bandi ma semplici richieste di limitazione da affidare agli individui".
Come è la situazione attuale? Sei riuscito a vaccinarti? Come è stato accolto il vaccino dalla popolazione, speranza, paura o scetticismo?
"Attualmente siamo sotto il 3° stato di emergenza (conseguenza della non coercizione delle direttive? anche i ligi giapponesi dopo un po’ smettono di obbedire a regole che neanche le istituzioni rispettano, e sono stati numerosi i casi di politici “beccati” a feste o in vacanza in periodi di coprifuoco) e mancano 2 mesi alle Olimpiadi: la domanda che tutti si chiedono è “si faranno?” e l’opinione di oltre il 60% della popolazione è che non si dovrebbero tenere".
"Il fatto è che la popolazione che ha ricevuto almeno un’iniezione di vaccino ammonta a meno del 5%, e chi ha ricevuto entrambe le dosi non arriva neanche all’1%. La burocrazia ha bloccato l’approvazione dei vaccini per oltre 2 mesi (le prime iniezioni sono cominciate a fine febbraio), e la sanità in larga percentuale in mano ai privati non ha dimostrato di avere le caratteristiche per un veloce dispiego dei vaccini – oggetto anche di forte scetticismo da parte della popolazione con percentuali di appuntamenti cancellati all’ultimo minuto che rasentano il 5-10%".
"Si parla di terminare gli ultra 80enni entro fine luglio (molti mettono in dubbio pure questa data), perciò a conti fatti per noi giovani non ci sarà spazio fino al prossimo anno, a meno di exploit. Fortunatamente in questo caso la nazionalità non farà testo e come residente avrò lo stesso diritto di accedere alla vaccinazione distribuita dalla NHI (National Health Insurance) di qualsiasi altro giapponese".
Ci sono state ripercussioni psicologiche? Sei riuscito a mantenere i rapporti interpersonali?
"In Giappone e specialmente a Tokyo, che è una città orizzontale e perciò diffusa su una superficie terrificante, ogni movimento verso qualsiasi località richiede termini di tempo nell’ordine dell’ora (nonostante un trasporto pubblico efficientissimo!), che sommato alla socialità molto diversa dei giapponesi rispetto a noi latini, risulta in rapporti interpersonali abbastanza lontani e mai frequenti, perciò la differenza col periodo pre-pandemia sinceramente non è stato così abissale come in Europa".
"Emotivamente lavorare a casa mi ha permesso di riguadagnare un equilibrio ed una tranquillità che il pendolarismo ed il lavoro d’ufficio giapponese non aiuta a coadiuvare, ovvio che con l’andare del tempo il mancare del rapporto con i colleghi ha portato sia ad un po’ di solitudine nelle ore di lavoro sia ad un calo della creatività-vivacità dovuto al mancato confronto con altri professionisti, che nel mio campo è tremendamente importante. A livello di discriminazione in quanto straniero invece, non ho percepito nessun tipo di discriminazione diretta, in Giappone è difficile che persone comuni emarginino platealmente ed in modo attivo gli stranieri, purtroppo spesso però questo avviene in maniera più subdola e magari a livello di governo centrale".
"Infatti in quanto straniero (seppur residente da anni) le procedure per viaggiare all’estero e soprattutto per tornare in Giappone erano più complicate di quelle che avrebbe dovuto fronteggiare un cittadino giapponese, e soprattutto in caso di infrazione della quarantena di 14 giorni dopo l’eventuale ritorno dall’estero, a differenza di un comune giapponese che oltre ad una pena pecuniaria avrebbe solo dovuto subire il “name and shame” ovvero il proprio nome pubblicato su una lista pubblica come “usurpatore della pubblica sanità”, io in quanto straniero avrei rischiato l’espulsione dal paese".
"Alla fine dei conti però, mi ritengo molto fortunato, perché vedendo quello che è successo in Europa non ho proprio spazio per lamentarmi, in fondo qui abbiamo quasi continuato a fare la vita di tutti i giorni".