Un garage, un paese del Valdarno. Un percorso di ricerca e scoperta di un mondo: quello della sottocultura dei giocatori di ruolo, che è protagonista dell’ultimo romanzo dello scrittore valdarnese. Lo abbiamo incontrato e intervistato
Un mondo a parte, una sorta di universo racchiuso in un garage, che si nutre di fantasia, fra dadi e matite. Una sottocultura "negletta, a volte persino demonizzata" Ma in realtà aggregatrice. Ed è proprio a questo mondo che Vanni Santoni ha dedicato il suo ultimo romanzo, "La stanza profonda". Seconda pubblicazione con Laterza per lo scrittore valdarnese, che ha già segnato un traguardo: il libro è infatti candidato al Premio Strega, ed è la prima volta per questa casa editrice. "Una soddisfazione enorme, inattesa, e una bella responsabilità", commenta Santoni.
Lo abbiamo incontrato e intervistato a Figline, durante la presentazione del suo libro alla fumetteria Kurousagi. Una conversazione per tracciare il profilo di questo libro, "naturale prosecuzione, in qualche modo, di 'Muro di casse': due sottoculture che avevano molti punti in comune".
Partiamo dall'inizio. Che cos'è "La stanza profonda"?
"Un romanzo puro, direi. Anche se in realtà oggi il genere del romanzo è forse più ibrido, in questo caso sì, direi che si può parlare di romanzo nel senso più puro del termine. È la storia di un bambino che scopre il mondo dei Giochi di Ruolo, e della ricerca di un adulto di un gruppo con cui giocare, una sorta di viaggio in cui accumula oggetti, materiali e così via. Ambientato in un paese del Valdarno, la periferia, dove forse più che nelle città i giochi di ruolo hanno affondato profonde radici".
Cosa lo lega al primo libro con Laterza, "Muro di casse"?
"Entrambi esplorano due sottoculture che sono state avanguardia. Lo definirei quasi un gemello, da questo punto di vista. Il mondo dei rave e quello dei giochi di ruolo hanno molte caratteristiche in comune. Sono non competitivi, gratuiti, fuori dal mondo del consumismo; finiscono quando lo decidono i loro protagonisti. E hanno delle suggestioni futuristiche. E forse anche per tutti questi motivi sono stati entrambi stigmatizzati: per i giochi di ruolo si parlò addirittura di istigazione al suicidio e satanismo, negli Usa. Episodi reali che ho traslato nella narrazione".
Cosa rende interessante questo universo, cosa ha lasciato?
"Giocare è un'esperienza competitiva, di solito. Non in questo caso: il gioco di ruolo è basato sull'uguaglianza, anzi: è congiuntivo. In quel garage si entra diversi, da lì si esce uguali. E poi è stato una vera avanguardia: prima ancora dell'industria dei videogame, prima soprattutto dei social network, il concetto di creare mondi altri, non come fuga, ma come condivisione, è alla base dei giochi di ruolo".
Un romanzo che è anche narrazione nostalgica?
"Non come visione ideologica, questo no. Certo, ho venti anni alle spalle di esperienza, come giocatore di ruolo. Quando Laterza mi ha lanciato l'idea di un altro libro, dopo "Muro di casse", è stato naturale, mi è venuto in mente in un attimo. Ho scoperto però che non era così facile raccontare i giochi di ruolo, specie per chi non sa nemmeno come funzionino. Non è spettacolare, per chi lo vede da fuori; non potevo limitarmi alla narrazione di come fosse andata per un gruppo; non si poteva nemmeno raccontare le avventure dei personaggi, per non scadere in un fantasy di scarso livello. Ho lavorato molto di più sui protagonisti. Che sono, in fondo, quei nerd guardati di traverso allora, e che oggi si sono imposti nel mondo: sono diventati mainstream, con le loro capacità informatiche e le loro idee hanno plasmato e disegnato la realtà di oggi. Anticipavano il futuro, e hanno vinto loro".