23, Dicembre, 2024

A Vallombrosa con i ragazzi che vogliono salvare la foresta. “Così lavoriamo in mezzo a migliaia di alberi caduti”

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Un gruppo di dottorandi dell’Università di Firenze studia la foresta di Vallombrosa dopo la devastazione del vento. Analizzano gli alberi caduti per capire quali elementi possano aver contribuito ad uno dei più grandi disastri naturali avvenuti in Italia, e come si evolverà la situazione. Li abbiamo seguiti sul campo

Oggi la foresta di Vallombrosa è un libro aperto. La tempesta di vento del 5 marzo ha lasciato sul terreno migliaia di alberi, ma per la prima volta ha aperto la strada a studi che prima non erano possibili, o lo erano solo in parte. Radici, tronchi e persino il sottosuolo sono diventati così, all’interno della Riserva biogenetica di Vallombrosa, un preziosissimo campo di lavoro per un gruppo di dottorandi dell’Università di Firenze.
 
“Ciascuno di noi si occupa di settori diversi all’interno della Scuola di Agraria – spiegano – ma per questo la ricerca che svolgiamo è ancora più importante: tante discipline diverse che dialogano fra loro possono dare una visione organica, fornire una lettura completa e innovativa a quello che è successo qui lo scorso 5 marzo, e ai possibili scenari che si aprono ora”.
 
Quello che è successo lo raccontano prima di tutto i numeri. La Forestale ha già fatto una stima, che questi studi stanno sostanzialmente confermando. A terra, per il vento, sono rimasti più di 45mila metri cubi di legno, soprattutto abete bianco. Come a dire che in un solo giorno sono cadute le piante che si sarebbero abbattute nell’arco di 60 anni. Se si attraversa la foresta, si nota come alcuni versanti siano stati più colpiti di altri, proprio a seconda dell’esposizione al vento. In tutto almeno 250 ettari di bosco sono stati cancellati dal vento, mentre la superficie interessata nel complesso dai danni del 5 marzo si estende per 650 ettari: la metà dell’intera foresta di Vallombrosa.


 
Una devastazione di questa portata non sembra aver avuto paragoni in passato. I monaci vallombrosani hanno registrato in realtà crolli nella foresta sin dal 500, a più riprese: i disastri naturali sono stati molti, fino ai giorni nostri. L’ultimo risale al 2013. Ma mai di queste dimensioni: quello di marzo è stato uno dei più grandi disastri naturali avvenuti in Italia. E per questo è così importante studiarne concause e effetti.
 
Al Paradisino, sopra l'Abbazia di Vallombrosa, la Scuola di Agraria dell’Università di Firenze opera da anni, su concessione del Corpo Forestale dello Stato. È una autentica scuola per gli universitari, che si alternano durante tutto l’arco dell’anno, e possono vivere e pernottare in mezzo alla foresta, grazie ad una struttura con due piani di camerate e mensa. È qui, dalla testa di un gruppo di dottorandi, che è nata l’idea di questo studio, all’indomani della tempesta di vento. “Per noi è l’occasione di capire molto di più, sullo stato attuale della foresta e su quello che potrà succedere”, spiegano. Alla ricerca delle concause, quegli elementi che possono aver contribuito al disastro causato in primo luogo ovviamente dal vento.


 
Il loro lavoro è quanto più tradizionale possibile: niente apparecchi ultramoderni, ma solo metri, cavalletti, carta e penna. Ognuno di loro osserva dettagli diversi, cataloga, appunta informazioni che finiranno poi in database , grazie alla nuova aula multimediale da 30 computer, una delle poche innovazioni tecnologiche del Paradisino, dove c'è anche una importante stazione meteorologica. Da questi database organizzati, poi, sarà possibile trarre delle conclusioni. “Prima di tutto è importante l’osservazione dell’apparato radicale. Da qui capiamo se le radici degli alberi caduti erano in buona salute. È emerso, ad esempio, che ad altitudini più basse, in zona Saltino, si trovano molti più alberi con radici marce, rispetto a quelli situati più in alto”.
 
Altri studi interessano il legno e la sua qualità: anche perché oggi tutto quel legno non viene lasciato a marcire a terra, ma venduto a ditte del settore. I pezzi migliori, scelti in base a precise caratteristiche (lunghezza, circonferenza, qualità del legno, assenza di nodi) sono destinati ad impieghi nell’edilizia, il resto finirà a cippato. Così la Forestale sta gestendo un’operazione che porterà anche entrate extra. Il legno, però, è così tanto che in questo momento ha saturato il mercato nazionale. “Dobbiamo quindi cercare un modo per conservarlo nei prossimi mesi senza che si deteriori, svalutandosi”, spiegano gli studenti.
 
Poi c’è chi si occupa di capire come cambia l’ecosistema. “In mezzo al fitto bosco si sono aperti scorci, aree in cui non c’è più un albero in piedi. Qui ora nascono e si sviluppano arbusti e erbe, si sta arricchendo in sostanza la flora, la biodiversità. Una modifica sostanziale nell’ecosistema della foresta, che può avere ripercussioni anche sulle abitudini e sugli spostamenti degli ungulati”. Altri ancora studiano gli insetti, e poi ci sono esperti di ingegneria idraulica, telerilevamento e così via.


 
Il lavoro finale di questa squadra servirà anche a programmare il futuro della foresta di Vallombrosa. A capire, cioè, come e fino a che punto l’uomo possa intervenire. Ad oggi non sono state prese ancora decisioni: il Corpo Forestale dello Stato segue con attenzione gli studi dei dottorandi, per capire ad esempio se sia il caso di ripiantare nuovi alberi. Oppure se sia meglio aspettare che la natura scriva da sola il suo destino.  

I dottorandi impegnati in questo progetto sono 17 in tutto. Appartengono al Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell'Ambiente Duccio Migliorini, Elisa Carrari, Francesco Croci, Matteo Bracalini; del Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agrari, Alimentari e Forestali, invece, Cristiano Foderi, Daniele Cibecchini, Andrea Laschi, Martina Sassoli, Martina Cambi, Veronica Racanelli, Niccolò Frassinelli, Giovani Aminti, Alessandro Enrico, Yamuna Gianbastiani, Simona Iacobelli, Leonardo Antonello e Francesca Gianetti. 

Ha collaborato Eugenio Bini

 

Glenda Venturini
Glenda Venturini
Capo redattore

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