Dal 5 marzo 2015 studi multidisciplinari hanno interessato la foresta di Vallombrosa, ferita dal vento. Studi che hanno permesso di escludere altri fattori dalle cause della devastazione, ma anche di decidere come agire nella ripulitura e messa in sicurezza. E che hanno dato un indirizzo per il futuro: il bosco dovrà riformarsi in modo spontaneo
Da quel 5 marzo del 2015, la foresta di Vallombrosa ha in parte già cambiato volto. E lo cambierà ancora, ma nel modo più naturale possibile: senza interventi invasivi della mano umana, lasciando che la natura faccia il suo corso. La gestione dell’emergenza, nelle prime settimane; e poi la ripulitura del bosco, ancora in corso, sono di fatto gli unici lavori realizzati, e comunque con cautele e indirizzi precisi. D’ora in poi, invece, il tempo e il bosco saranno gli unici architetti del futuro aspetto della foresta.
L’esito dello studio multidisciplinare che nell’ultimo anno ha interessato Vallombrosa è stato presentato lunedì scorso. Racconta prima di tutto un’esperienza unica: in poco tempo, con il coordinamento della Regione Toscana, si sono attivati soggetti che difficilmente collaborano in maniera così forte. Consorzio LaMMA, Accademia Italiana Scienze Forestali, Corpo Forestale dello Stato e Dipartimento GESAAF dell’Università di Firenze sono i principali. Alla presentazione degli studi si è parlato di “sinergie uniche e con effetti significativi”. Un danno trasformato, almeno da questo punto di vista, in opportunità, per sperimentare strategie di lavoro nuove e diverse, più snelle e più puntate all’obbiettivo.
“Sulle cause del disastro, lo studio ha confermato che l’eccezionale portata del vento ha avuto un ruolo predominante”, ci spiegano Giovanni Galipò, del Corpo Forestale, e Andrea Laschi, dell’Università di Firenze. “Raffiche che, secondo gli studi del Lamma, hanno spirato per tre giorni da Nord-Est, con il picco del 5 marzo”. E se i dati registrati dagli anemometri sono arrivati a 108 km/h, è possibile presumere che in alcuni punti, per le dinamiche del vento, la presenza di canaloni e valli abbia funzionato da acceleratore per portare anche oltre i 150 chilometri all’ora.
L’Università ha studiato le condizioni delle piante cadute, pari a circa 650 ettari di bosco, oltre 50mila metri cubi di legno, di cui il 90% abete bianco, che fino a 35 anni fa veniva piantato in zona per poi abbatterlo e venderlo come legno di pregio. “È emerso che molte piante soffrivano di marciume dell’apparato radicale, un fenomeno che si verifica normalmente proprio quando un bosco è prevalentemente popolato di abeti – spiegano Galipò e Laschi – gli studi, però, hanno permesso di dimostrare in modo scientifico che da solo, questo marciume, non avrebbe mai portato alla caduta degli alberi”. Il vento, che ha spirato ad una velocità mai registrata prima a Vallombrosa, resta quindi il principale imputato di questo disastro naturale.
Anche la ripulitura del bosco dal legno caduto è stata decisa in base agli studi effettuati. In alcune zone, come l’ormai famosa ‘terrazza’ che si è formata sulla strada per il Saltino, il legno è stato portato via tutto. “Si restituisce così spazio al bosco, che potrà riformarsi liberamente. Qui non c’erano specie a rischio, o altri fattori che ci spingessero a lasciare il legno a terra, del tutto o in parte”. È avvenuto invece in altre zone, magari meno accessibili perché lontane dalla strada. “Era importante tutelare specie come il picchio nero, il picchio rosso minore, la formica rufa, la salamandra, il tritone crestato: sono specie rarissime, protette a livello europeo. E spostare grandi quantità di legno caduto significava mettere a repentaglio il loro habitat”. Per questo ancora qui non si è intervenuti, e probabilmente lo si farà solo in parte.
Quel legno caduto e recuperato, già per un terzo è stato tagliato e venduto, permettendo così allo Stato di coprire i costi dell’emergenza e ricavare altre risorse economiche per il futuro. I due terzi rimanenti saranno oggetto di nuove aste pubbliche, per la maggior parte durante questa estate. E intanto il legno (che è di alta qualità) sarà conservato secondo le indicazioni degli studi, in modo che non si deteriori. Intanto, nelle zone degli schianti sono stati installati picchetti e reti per delimitare zone ‘campione’, aree di monitoraggio costante nelle quali i ricercatori registreranno i cambiamenti dei prossimi anni.
Ma quale sarà, dunque, il nuovo volto di Vallombrosa? “Lasceremo questo bosco alla rinnovazione naturale, non pianteremo una sola specie. In una prima fase, ci aspettiamo che queste zone si ricoprano di arbusti e specie erbacee. Sotto a quei rovi, però, cresceranno le nuove piante. Rinascerà in buona quantità l’abete bianco, proprio per la sua estesa presenza, ma se lasceremo fare alla natura, arriveranno anche faggi, aceri, querce, cerri, castagni, ciliegi. Sarà un ulteriore modo per tutelare e valorizzare la diversità specifica, che è lo scopo delle aree naturali protette. E sarà un bosco più ‘forte’, capace di affrontare meglio le insidie naturali”, concludono Galipò e Laschi. Qualche esemplare già spunta dal terreno: sono bastati pochi mesi perché si vedessero nascere nuove piante. E altre, che per anni sono rimaste all’ombra dei grandi abeti, ora hanno aria e luce per crescere. La foresta ha già iniziato a scrivere il suo futuro.
Ha collaborato Eugenio Bini