L’esposizione allestita nell’Auditorium del Museo Mine dedicata a Rambaldo Macucci, l’ultimo abitante di Castelnuovo vecchio, si chiuderà il prossimo 9 settembre
Si chiuderà il 9 settembre la mostra “Mi chiamo Rambaldo”, dedicata all'ultimo abitante di Castelnuovo vecchio e allestita nell'Auditorium del Museo Mine di Castelnuovo dei Sabbioni. Inaugurata nello scorso mese di maggio in questa estate è stata visitata da tante persone.
"Metrino" ha attraversato la storia delle miniere e della trasformazione del paesaggio e proprio a lui si ispirò nel 1995 Alessandro Benvenuti quando trasformò il vecchio paese di Castelnuovo in un set cinematografico, girandovi il film Ivo il Tardivo. Nata dall'idea di Andrea Ermini, subito accolta dall'Amministrazione Comunale e dal Museo Mine, la mostra ricorda attraverso quadri, fotografie, scritti, minerali il mondo di Rambaldo Macucci.
Fino al prossimo 9 settembre l'esposizione sarà accessibile al pubblico negli orari di apertura del Museo di Castelnuovo dei Sabbioni: dal martedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.00, sabato e domenica dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00.
Uno dei ricordi di Rambaldo pubblicato sulla pagina Facebook dedicata alla mostra
“Rambaldo, classe 1915, assunto alla miniera come addetto al transito, nel tempo libero leggeva, studiava, dipingeva e cercava di capire quel mondo minerario e naturale che lo circondava, guardando con occhio attento e scrutando i suoi segreti con lo studio di fossili e minerali. Metrino ha attraversato la storia delle miniere e della trasformazione del paesaggio".
"Le miniere di lignite di Castelnuovo dei Sabbioni. Aperte nella seconda metà del 1800 esse sono state per molto tempo in galleria. Lavoro duro quello del minatore che giorno dopo giorno deve “abbattere” la lignite nelle gallerie sotterranee. Lavoro pericoloso quello dell'abbattimento dove frequenti erano i casi di infortunio, spesso anche mortali.
La “compagnia” addetta alla camera di coltivazione/abbattimento era formata da tre persone: il capo minatore, il minatore e il carichino. La luce era data dalle lampade ad acetile. L'abbattimento avveniva con picconi e incastrino, lo strumento dei nostri minatori, composto di due parti, in modo tale da poter sganciare la punta in ferro, affilarla e infilarla nuovamente, pronta per il lavoro".
"I minatori del Valdarno non avevano una divisa particolare, si lavorava con abiti comuni, spesso a torso nudo perchè in miniera c'era caldo. Solo gli scarponcini, di vacchetta, avevano i loro chiodi sulle suole, per non scivolare. Una volta riempite le chiatte di lignite essere venivano portate lungo le gallerie, ben armate con legni del territorio. All'esterno il lavoro continuava con altre attività. C'era anche una centrale a Castelnuovo dei Sabbioni. Fu costruita nel 1907 e grazie alla lignite che vi veniva bruciata produceva corrente elettrica per Firenze, Arezzo e Siena. Poi c'erano i binari a scartamento ridotto e i treni che portavano il prezioso fossile verso altri luoghi, in particolare a San Giovanni Valdarno, per essere poi bruciato negli altiforni della Ferriera, o alla fabbrica della Società Toscana Azoto che con la lignite ci faceva fertilizzanti per l'agricoltura a Figline".
"Un mondo fatto di suoni, rumori, odori e colori ben precisi, quello delle miniere del Valdarno. Sono i colori e il lavoro in miniera che Rambaldo rappresenta in tre opere esposte nella mostra a lui dedicata nell'auditorium del museo MINE. Poi, passata la guerra e rimessi i danni, un altro tipo di escavazione sarebbe arrivato in Valdarno, quello delle miniere a cielo aperto, dove le macchine avrebbero scavato argilla e lignite. Altri colori, altri rumori ma il medesimo “puzzo” di lignite che ha continuato a segnare il territorio per altri 40 anni”.