Anche la Cgil ha lanciato il grido d’allarme per la presenza di laboratori cinesi in Valdarno. La campagna nazionale “Abiti Puliti” mette in luce la “cinesizzazione” del made in Italy. Il report evidenzia i salari al ribasso anche in Toscana e punta il dito su alcuni grandi marchi. Intanto il consigliere Piero Caramello ha presentato un’interrogazione nel consiglio di Figline e Incisa: “Serve l’impegno di tutti per governare questi processi”.
Una vera e propria "cinesizzazione" della filiera della moda italiana. Questo quanto emerge dalla campagna "Abiti Puliti" che ha analizzato i distretti produttivi anche toscani. Quanto raccontato nei giorni scorsi da Valdarnopost e rilanciato dalla Filctem Cgil è analogo a quanto sta avvenendo nei principali distretti italiani della moda. Il report "Abiti Puliti" prende in esame le regioni Veneto, Toscana e Campania.
“Non deve stupire – si legge nel report – se la filiera produttiva dei grandi marchi che rilocalizzano in Italia risulta composta da un’ampia rete di subfornitori medi e grandi, che a loro volta subappaltano fasi di lavoro a piccole imprese artigianali. Fra esse anche imprese cinesi che ormai sono presenti un po’ in tutti i territori a tradizione calzaturiera e dell’abbigliamento. Le condizioni di lavoro cambiano a seconda del posto occupato dall’impresa nella filiera globale di produzione”. La Filctem Cgil di Firenze ha chiesto la tracciabilità delle filiere: “Ma queste catene del lavoro sono difficili da riscostruire, anche perché i marchi non sono per niente disponibili a pubblicizzare i nomi dei loro fornitori e in molti casi non hanno neppure il controllo completo sull’intera filiera”.
La Campagna “Abiti puliti” mette poi in luce la vera nota dolente: i salari. Quelli “migliori si trovano fra i lavoratori alle dirette dipendenze dei grandi marchi, non solo perché sono i luoghi che più frequentemente i giornalisti visitano, ma anche perché qui i lavoratori sono più organizzati e solitamente riescono a ottenere l’applicazione dei contratti collettivi e premi di produzione a livello aziendale. Ovviamente non mancano le eccezioni. Dalle testimonianze raccolte Prada pare sia la griffe con rapporti sindacali più difficili e condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che pur producendo calzature applica il contratto collettivo del cuoio. E non a caso, ma perché il contratto del cuoio è peggiorativo rispetto a quello calzaturiero”.
“La filiera – si legge nel report riassuntivo – è un insieme di gironi danteschi e più si scende, più magri sono i salari e peggiori le condizioni di lavoro, fino a potersi imbattere nel lavoro nero che ovviamente sfugge alle grandi griffe perché loro il rapporto lo tengono solo col primo anello della subfornitura. Ma spesso i prezzi che pagano sono così bassi da non lasciare molta scelta a chi sta alla base”.
Una “cinesizzazione” – termine utilizzato da una dipendente intervistata – dei salari: “Le condizioni di lavoro nell’industria italiana dell’abbigliamento e delle calzature sono mutate negli ultimi venti anni: molte le imprese che hanno chiuso, alta la riduzione del fatturato. Il ritorno delle grandi multinazionali è sicuramente positivo in termini occupazionali, ma può diventare catastrofico se si importano in Italia le condizioni di lavoro e i livelli salariali che le imprese trovano altrove”.
Insomma molte ombre si addensano in quello che è il “Made in Italy”. Piero Caramello,consigliere comunale di Percorso Comune ha presentato un’interrogazione a Figline e Incisa: “E’ necessario vigilare e governare i cambiamenti del tessuto produttivo".
Caramello chiede "tutela dei diritti e salvaguardia del tessuto produttivo. La situazione immigratoria dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese non riguarda più solamente l'hinterland della città di Firenze ma si sta sposando nelle periferie della provincia. Per questo – sottolinea – abbiamo deciso di interrogare la sindaca e la Giunta perché queste notizie non rappresentano soltanto ipotesi di scenari lontani ma sono ormai realtà. L'integrazione culturale passa inevitabilmente attraverso il governo del territorio, con la collaborazione di tutti gli enti preposti e mi riferisco non solo alle forze dell'ordine ma soprattutto alle parti sociali ed alla società civile e imprenditoriale. Chiediamo per questo anche responsabilità sociale ai grandi marchi della moda. Responsabilità che spesso è mancata come emerso nelle inchieste giornalistiche nazionali".
"Dopo la seduta consiliare ed in base alle risposte ricevute, sarà nostro interesse non far cadere questo delicato argomento ma trovare metodi per governare il fenomeno. Anche la Cgil – prosegue Caramello – ha messo tutti in guardia per evitare logiche al ribasso da parte delle grandi griffe nella filiera della moda. L'invito è esteso a tutte le forze politiche e sociali, così come ai grandi gruppi imprenditoriali affinché si riesca ad organizzare un confronto e un dibattito pubblico per trasformare un problema in risorsa e azzerare le paure e le insicurezze. Ma anche – conclude il consigliere – per ribadire l'importanza dei diritti dei lavoratori, il contrasto all'illegalità, la salvaguardia del tessuto produttivo e l'immagine di un territorio in cui la filiera della grande moda da sempre ha trovato terreno fertile".